Gaetano e Mauro Salvemini, 1902. Alla fine del secolo Salvemini iniziò ad occuparsi dell’arretratezza del Mezzogiorno, pubblicando un famoso saggio intitolato La questione meridionale (1898-1899), in cui la causa principale del sottosviluppo, sulla base di una attenta analisi storica, viene individuata nella sopravvivenza di una struttura economico-sociale semifeudale dominata dalla classe dei latifondisti, i quali, pur gestendo le loro proprietà agrarie secondo metodi arcaici, riescono ugualmente a ricavarne ingenti guadagni grazie allo sfruttamento della manodopera contadina. Il potere sociale dei grandi proprietari si sorregge mediante due diverse alleanze: la prima a livello locale/regionale con la piccola borghesia, a cui vengono affidate mansioni all’interno dell’economia latifondista e delle amministrazioni locali; la seconda, a livello nazionale, con la grande borghesia settentrionale, la quale, in cambio dell’elezione nei collegi meridionali di deputati di provata fede governativa, impedisce l’approvazione di qualsiasi legge di riforma agraria e al contempo mette a disposizione del sistema latifondistico tutte le forze dell’apparato statale, soffocando nel sangue qualsiasi movimento di protesta dei contadini meridionali. Il suggello di quest’alleanza viene sancito dalle politiche economiche protezionistiche che permettono di preservare la nascente industria settentrionale dalla concorrenza estera e di assicurare ai latifondisti meridionali rendite sicure con il dazio sui cereali. A differenza dei precedenti studiosi di ispirazione liberale che si erano occupati della questione meridionale, Salvemini non nutre alcuna fiducia nell’intervento riformatore dello stato, visto che è asservito agli interessi sociali dei latifondisti e pertanto ritiene che la soluzione del problema risieda in una mobilitazione delle masse rurali che dovevano diventare protagoniste della loro emancipazione con il sostegno e la collaborazione del proletariato industriale dell’Italia settentrionale.