Di motivi per ricordare Ernesto Rossi – soprattutto di questi tempi – ce ne sono a iosa. Coscienza libera del Novecento. Uomo fedele alle proprie idee al punto da “meritarsi” tredici anni dal regime fascista (tra galera e confino). Amministratore pubblico integerrimo e di successo (collettivo, non personale). Castigamatti dei vizi nazionali. Patrono laico d’Europa. E così via discorrendo.
Tutto sommato, però, a voler illuminare un solo aspetto della sua figura, quello più significativo – in questo cinquantenario dalla sua scomparsa – non ci sarebbero dubbi: abbiamo da tenerci caro soprattutto l’Ernesto Rossi “teorico”. E dire che di un “teorico” assai particolare si tratta, refrattario alle “filofesserie” e sempre con i piedi ben piantati nella realtà. Pure le sue analisi, le sue intuizioni mantengono a tutt’oggi la loro attualità, la loro “universalità”. Sarà che molti mali d’Italia sono ancora quelli di allora (dipendenza, dipendenza e ancora dipendenza, di ogni risma, morale, politica, economica). C’è però di più. C’è in Rossi una teoria, un “messaggio di libertà” che parla a ciascuno di noi e ci chiama, in ogni luogo, in ogni tempo, alla nostra dignità maggiore, allo sviluppo della nostra autonomia. E che – in maniera originale, ma non contraddittoria, per un liberista -, si rivolge soprattutto agli ultimi, ai diseredati, ai “miseri” di questa terra.
A loro Rossi dedicò il suo volume più suggestivo, più profondo: Abolire la miseria, nel quale tutto il suo ingegno, lo studio, il suo acume, furono spesi per setacciare le vie dell’intervento pubblico al riequilibrio sociale, con l’intento dichiarato di trovare quella giusta per coniugare la scomparsa della povertà con il dinamismo sociale liberista. La via che consenta al figlio del povero di entrare nell’agone della società e far concorrenza al figlio del ricco, eventualmente battendolo sul terreno del solo merito. La via che consenta di arginare, o meglio eliminare, gli effetti devianti (criminogeni, epidemiologici etc.) della miseria umana. La via che consenta ad una comunità di offrire ad ogni proprio membro la possibilità di dare un contributo alla civiltà comune.
La via che Rossi sembrò trovare in quello che definì «l’esercito del lavoro». Un popolo intero che fin dalla giovinezza si prepara a confrontarsi con i rischi della vita. Un servizio obbligatorio per tutti i cittadini appena conclusi gli studi, della durata di due anni, volto alla auto-produzione dei beni essenziali per le basilari condizioni di dignità. Il giovane lavorerebbe alla produzione dei vestiti, degli alloggi, dei mobili, degli alimenti che serviranno a lui e agli altri per i momenti di bisogno, creando così da sè le condizioni del proprio riscatto, senza che lo stigma della dipendenza lo possa segnare e condannare. Spostare in alto l’asticella delle condizioni comuni di partenza, facendo in modo che da 0 si passi a «il minimo», lasciando poi tutti liberi di correre (e vincere) secondo le proprie capacità e fortune. Riuscendo al contempo ad evitare di trasformare una compagine di cittadini in un’eterna accozzaglia di accattoni, dipendenti dalle mammelle dello Stato.
Utopia? Sissignore. Tanti aspetti di questa grande intuizione rimangono oscuri (e se ci volesse più Stato così, che con il welfare particolaristico? E se alla fine lo stimolo del bisogno cessasse e venisse così meno l’incentivo a migliorarsi?). Dubbi legittimi, per carità. D’altro canto «utopia» ha due etimologie: «ou topos», non luogo, luogo del nulla ed «eu topos» luogo buono, luogo della speranza. Rossi non avrà risolto il problema dell’intervento sociale dello Stato, ma la direzione, la rotta, quella sì che possiamo ragionevolmente ritenerla giusta: sarebbe davvero tanto difficile e utopico (nel senso negativo) associare lo studio al lavoro (magari nelle forme «socialmente utili»), così da consentire a ogni giovane di mettere da parte una «riserva per il futuro»? Possiamo permetterci di lasciarci indietro il patrimonio di pensiero che l’«universalismo rossiano» rappresenta?
Forse questo “cinquantenario” è l’occasione giusta per fermarci a riflettere e dare una risposta, personale e fattiva, a questi quesiti.
Gianmarco Pondrano Altavilla
Centro di studi storici, politici e sociali “Gaetano Salvemini”
(Pubblicato su L’Opinione)