Su StampToscana è stata pubblicata la recensione di Severino Saccardi, direttore della rivista Testimonianze, al libro Abolire la guerra. La pubblichiamo per esteso.
Abolire la guerra è il titolo del volume (a cura di Antonella Braga, con prefazione di Mimmo Franzinelli, Nardini editore) che raccoglie una bella antologia di testi di una storica personalità come Ernesto Rossi su idee e proposte su guerra, pace, federalismo e unità europea. Un libro che parla fin dalla copertina, in cui è riprodotto un disegno dello stesso Ernesto Rossi che rappresenta se stesso, con la moglie Ada (che tiene al guinzaglio lo cagnetta Mosella), insieme a San Francesco e Santa Chiara, in una simbolica marcia per la pace ad Assisi.
La pubblicazione di questo lavoro rappresenta una significativa operazione editoriale basata su tre punti-forza: un’antologia, presentata con criteri cronologici e in modo ragionato degli scritti di un importante esponente del pensiero europeista e federalista; un ampio inquadramento biografico, storico, esistenziale e culturale della figura e del percorso di Ernesto Rossi (messo a punto con il preciso riferimento a brani e a parti dell’antologia), firmato dalla stessa Antonella Braga; la scelta di porre al centro una questione, quella della pace e della guerra, che non rappresenta certo l’unico tema che stia a cuore a Ernesto Rossi ma che, nel suo pensiero e nella sua connotazione politico-culturale ha una forte rilevanza.
Ma chi era Ernesto Rossi (1897-1967), del cui volto nel libro è riportato il bel ritratto che ne disegnò Carlo Levi e che fu pubblicato in copertina dalla rivista «Astrolabio» quando morì nel febbraio 1967? Liberale di ispirazione, azionista, poi radicale, «pacifista» (una definizione, come vedremo, che richiede però le dovute precisazioni) e anticlericale (ma mai irriverente verso le espressioni della spiritualità, come quelle di Giuseppe Mazzini, di cui pure considera criticamente l’azione politica, ma di cui rispetta il misticismo, quando parla di “Dio e popolo”).
Ma soprattutto, convintamente, europeista. E’ principalmente al Manifesto di Ventotene (di cui nel libro è riportato un importante brano) che è legato il suo nome, insieme a quelli dell’ex comunista Altiero Spinelli e di Eugenio Colorni. C’è una convinzione, da considerare come il cuore di questo volume: che l’idea e la possibilità della realizzazione della federazione europea (con il superamento dei confini e degli interessi degli stati nazionali, con una comune politica estera e una comune forza militare di difesa) siano strettamente legati alla salvaguardia e alla promozione della pace.
Ci vogliono istituzioni (quelle, auspicabili, dell’ Europa unita) per difendere, tutelare e garantire la pace. Rossi, come viene sottolineato, sostiene infatti l’idea di un pacifismo istituzionale. Un pacifismo istituzionale, verrebbe da ricordare di passaggio, non troppo dissimile da quello che avrebbe poi ispirato (con una connotazione «planetaria) anche Ernesto Balducci. Pur nella diversità delle collocazioni, dei percorsi e del contesto storico, potremmo anzi dire che per entrambi, Rossi e Balducci, appare riduttivo racchiuderne dentro un qualche «ismo» l’ispirazione ideale, culturale e politica. Tutti e due più che «pacifisti» potrebbero, con un’espressione di più ampio respiro, essere definiti come «uomini di pace».
Per il democratico e liberale Ernesto Rossi, la pace non può andare disgiunta dalla libertà. Altrimenti essa è «pace degli schiavi», di popoli piegati dalla soggezione a qualche potenza straniera. Una sensibilità ed una vocazione, quella del grande europeista, che nasce, certo, dalla riflessione culturale, ma si forma, soprattutto, nel fuoco e nella sofferenza della vita. Anche Ernesto Rossi (per riprendere il titolo di un famoso best-seller di Antonio Scurati) è un «figlio del secolo». Cioè, del Novecento, il secolo del sangue, dei totalitarismi e delle due guerre mondiali. Ma lo è, moralmente e politicamente, in senso del tutto opposto, questo va da sé, al modo in cui lo era Benito Mussolini. Rossi impara la lezione dei drammi e delle tragedie di un’epoca di cui fa, dal di dentro, esperienza diretta. Lo si ricava dai suoi testi e dal saggio introduttivo di Antonella Braga. Va infatti volontario, più per senso del dovere che per convinzione, nella prima guerra mondiale, sulla spinta del cosiddetto «interventismo democratico».
Ma lì, sul campo, realizza presto che la guerra altro non è che una «pazzia collettiva». Ne dà conto egli stesso nell’intervento alla prima marcia della pace del Settembre 1961, laddove avverte di parlare «(…) nella qualità di uomo che ha fatto l’esperienza della prima guerra mondiale e che ha perso il suo fratello maggiore e i suoi migliori amici». E prosegue dicendo: «Ho combattuto come volontario nella prima guerra mondiale perché volevo contribuire ad abbattere il militarismo tedesco (…) Riconosco che questa è stata una mia illusione, che non si può, come è stato giustamente detto qui, combattere l’odio con l’odio.» .
Non si può combattere l’odio con l’odio: questa è la verità, al di là di quel che cercano di inculcare (come egli ricorda) le statue erette con improprio e retorico spirito patriottico che sono, spesso, bugiarde e anche brutte. La realtà della guerra, che il giovane volontario andrà sperimentando nella durissima vita di trincea, è fatta di fango («mota»), dissenteria, parassiti, lezzo insopportabile, vicinanza della morte, atrocità, decimazioni, prepotenze insensate degli ufficiali. Eppure, perfino in un contesto del genere, si può far qualcosa per introdurre un pizzico di umanità e di attenzione fraterna all’altro.
Come quando Rossi si mette a cercare di far «lezione di lingua» a poveri soldati analfabeti e illetterati. Così racconta, egli stesso, in una lettera alla madre del 20 Dicembre 1916: « Ho qui vicino a me un soldato che mi fa una pagina di calligrafia, impacciato nel tenere con le sue grosse dita una penna così fine. Ho cominciato a dare qualche lezione agli analfabeti. Ma senza libri, quaderni e banchi sono dolori. Tutti hanno una gran voglia e c’è qualcuno che farebbe anche presto….». Comunque sia, l’aver vissuto insieme agli altri la terribile esperienza delle trincee, crea, in qualche modo, un senso di appartenenza e di condivisione della memoria che non è facile accettare di veder contestato o addirittura deriso dall’esterno.
Interessante, in questo senso, la ricostruzione del percorso e delle scelte di Ernesto Rossi nell’immediato dopoguerra. Che per un periodo collaborerà con «Il popolo d’Italia» (il giornale fondato da Benito Mussolini) per reazione alle «bestialità» pronunciate, o messe in atto, dai socialisti contro gli ex combattenti. Ma si accorgerà ben presto di essere sulla strada sbagliata. Nella rettifica e nel cambiamento radicale di indirizzo sarà favorito dal rapporto con Salvemini, poi con i fratelli Rosselli e più tardi con Luigi Einaudi. Diventerà un fervente antifascista e pagherà, per questo, con il carcere. Ed è già in carcere, quando, a Pallanza, nel 1931, si sposerà con Ada Rossi, cui l’unirà non solo la forza del sentimento, ma anche la condivisione delle idee e una comune ricerca e voglia di approfondimento culturale. In carcere studia e scrive. Matura qui a fondo la sua idea federalista-europeista e la connessa visione di una cultura di pace, antimilitarista. Sviluppa intuizioni che, con singolare lungimiranza e capacità di analisi, aveva già in precedenza abbozzato, quando aveva scritto di «interdipendenza economica globale» e di quella «solidarietà caratteristica della moderna economia che avvince tutti i paesi in una stretta rete di rapporti interdipendenti…».
Il resto delle vicende (che qui vengono seguite passo dopo passo con il riferimento ai brani dei diversi periodi) è più noto: il confino a Ventotene, l’intesa con l’ex comunista Altiero Spinelli, Il Manifesto per un’Europa libera e unita (solitamente citato come Manifesto di Ventotene), la fondazione, dopo la destituzione di Mussolini, del Movimento Federalista Europeo, l’adesione al Partito d’Azione, la parola d’ordine della costruzione degli Stati Uniti d’Europa. Ma il ritorno della libertà e della democrazia riserverà anche delusioni. Il mondo e l’Europa sono divisi: da una parte c’è il comunismo sovietico e, dall’altra, gli americani e gli occidentali che, per opportunismo, sembrano ripescare anche vecchi arnesi del fascismo, favorire il clericalismo, sostenere perfino dittature di destra come quella di Salazar in Portogallo e di Franco in Spagna. Soprattutto, la costruzione dell’Europa unita sembra di là da venire. Anche se, in occasione del lancio e della realizzazione del Piano Marshall, sembra presentarsi una grande opportunità.
Rossi lo scrive espressamente a Spinelli il 13 Luglio 1947: «Dopo il discorso di Marshall c’è un’occasione che non dovremmo lasciarci scappare»). Ma poi l’avvicinamento fra i Paesi europei sembra procedere (soprattutto dopo il fallimento del progetto della CED, la Comunità Europea di Difesa) secondo una logica puramente «funzionalista» e di carattere economico, che lascia sostanzialmente intatti i confini e le prerogative degli stati e rimanda il discorso dell’unità politica. E’ poco prima dei Patti di Roma (che pur daranno vita alla Comunità Economica Europea) che Ernesto Rossi parlerà (e pubblicherà nel 1956 un libro con questo titolo) di Aria fritta.
Da convinto europeista patisce la delusione (assai più di Spinelli, molto più pragmatico e possibilista), ma continua, tenace, a dire la sua. Nel 1955 sarà fra i fondatori del primo Partito Radicale e nel 1962, con Ferruccio Parri, darà vita al settimanale «L’Astrolabio». Continuerà, soprattutto, a sostenere l’importanza della realizzazione dell’unità politica europea come garanzia della preservazione della pace. Un tema, come già rilevato, di cui Ernesto Rossi non avrà mai una visione semplicistica.
Non è facile abolire la guerra. Le guerre, purtroppo, ci sono sempre state. E’ riduttiva, egli sostiene, la posizione dei marxisti e dei socialisti che «vedono l’origine esclusiva di tutte le guerre nel “capitalismo”» mentre, in realtà «nei rapporti internazionali è (…) la politica» che «domina l’economia e non viceversa». La «vera causa delle guerre è il caos internazionale: la mancanza di un ordine giuridico e di un potere superiore capace di imporre ai governi nazionali il rispetto della legge liberamente accettata (…)». C’è, in queste parole, qualcosa di preveggente. Che non sia sufficiente dichiarare abolito il capitalismo per garantire la pace, la storia l’avrebbe poi reso evidente: con il Vietnam (retto dal partito comunista) che avrebbe combattuto contro il regime dei Khmer Rossi cambogiani, con i sovietici che si sarebbero scontrati, per ragioni di frontiera, con i cinesi, e così via.
Il pacifismo istituzionale di Ernesto Rossi è più a fondo che vuole andare. E’ in sintonia con la lezione del cosmopolitismo di Kant (anche se Antonella Braga sostiene che Rossi, che non amava le astruserie filosofiche, non avesse mai letto l’aureo libretto Per la pace perpetua del filosofo tedesco). C’è una vicinanza profonda anche alle posizioni di Hannah Arendt e del suo On revolution, in cui la rivoluzione presa a modello non è quella francese (che poi sfocia nel Terrore e nel bonapartismo) e non è neanche quella del bolscevismo russo, cui l’anticomunista Ernesto Rossi difficilmente avrebbe potuto richiamarsi: è quella americana che usa il potere conferito dal popolo per dare sostanza e forma alla democrazia e all’unità federalista fra realtà diverse. Quella sarebbe la via da indicare all’Europa. Un passo avanti significativo nella direzione di un «graduale incivilimento» (come lo definiva Freud, nel 1932, nel carteggio con Einstein su Perché la guerra) necessario a far progredire la cultura della pace e a far avanzare le istanze di Eros (l’istinto unitivo, di vita) nel suo eterno confronto con Thanatos (l’istinto aggressivo, di morte) nell’animo degli uomini e nei rapporti fra culture e civiltà.
E adesso, verrebbe da dire, a che punto siamo? Difficile è rispondere. Ernesto Rossi se ne andò, combattivo come sempre, ma intimamente deluso, nell’ormai lontano 1967. Parlando d’Europa, potrebbe sembrare che, da un certo punto di vista, avesse visto giusto. I rapporti fra i Paesi europei sono ancora improntati a una logica sostanzialmente di carattere intergovernativo. Ma in Europa c’era un Muro che oggi non c’è più. Popoli e Stati che si sono ferocemente combattuti sono comunque interni, pur in mezzo a mille contrasti e contraddizioni, ad un percorso comune. Verrebbe anche da dire che l’attuale grave e drammatico momento (con la crisi economica e la pandemia) potrebbe perfino rappresentare l’opportunità per confrontarsi con le tre sfide (politica, economia, cultura) come è stato ricordato in un recente, e molto seguito, convegno/videoconferenza della rivista «Testimonianze» che l’Europa deve affrontare.
E’ un fatto politico di rilievo il nuovo posizionamento della Germania con la Francia e con i Paesi del Sud sul tema cruciale del Recovery Fund. Un elemento specifico che forse può influire sulla decisione di far assumere finalmente all’Unione Europea più precise e stringenti prerogative politiche. Come al federalista Ernesto Rossi sarebbe piaciuto. Un libro come Abolire la guerra, preme sottolinearlo, può contribuire non solo a far conoscere o a riportare alla memoria pagine importanti della storia, ma può stimolare la discussione su temi di stringente attualità, che starà ai giovani degli anni duemila (raccogliendo il testimone, e le istanze di pace, della migliore cultura europeista) assumere con coraggio, creatività e senso di responsabilità.
Severino Saccardi