Il 2017 sarà carico di ricordi per la “famiglia” salveminiana. Intanto a settembre cadrà il sessantesimo anniversario della scomparsa proprio del patriarca; poi, a giugno, faranno ottanta anni da che furono uccisi Carlo e Nello Rosselli. E ora, imminente, il 9 febbraio, corre il cinquantenario della morte di Ernesto Rossi che per Salvemini fu assai più che un discepolo. «Se avessi mai potuto fabbricarmi un figlio su misura – gli scriveva – me lo sarei fabbricato pari pari come te». Era un vero e proprio passaggio delle consegne che, evidentemente, mai ci sarebbe stato se il primo non avesse sentito di continuarsi nel secondo. Sennonché nemmeno nella più compatta delle famiglie si parla sempre con una voce sola. Per cui, attenzione: non è vero che chi dice Rossi dice Salvemini. Questa è la verità, ma non è tutta la verità. Certo, precisamente come Salvemini, anche Rossi fuggiva le astrazioni stratosferiche; e proprio come Salvemini, pure Rossi non concedeva nulla alla fastosità della retorica. Ma, a differenza di Salvemini, sul pinnacolo dei principi ultimi, proprio sull’ultima cima della sua visione del mondo, Rossi faceva sventolare un’altra bandiera dove c’era cucita sopra una idea molto angustiata con la natura umana. La natura umana. È qui la vera differenza tra i due. Da una parte, dalla parte di Rossi, c’è un temperamento nativamente chiuso alle aspettazioni del progresso; dall’altra parte, dalla parte di Salvemini, c’è una sensibilità che inclina ma non cede mai ai richiami del pessimismo; un pessimismo, verrebbe da pensare, che nasconde tra le sue pieghe quella tremula, quella reticente speranza che trae alimento dalle forze dell’educazione. Vogliamo riparare sotto l’icastica rapidità dei nomi? E allora diremo così: dietro Salvemini c’era Stuart Mill. Dietro Rossi guizza l’ombra di Pareto. Non è una differenza da poco. Prendete per esempio la democrazia politica: mentre Salvemini vi arrivava trasportato sull’onda calda della fiducia («la fede nella democrazia – scriverà – rampolla dalla persuasione ottimista che l’uomo impara a furia di prove e di errori»), Rossi vi giungeva oltrepassando bensì Pareto ma come Pareto colorando di umor nero la sostanza degli uomini; specie degli uomini potenti i quali avrebbero travolto tutto se non fossero stati frenati negli istinti più feroci della loro bestialità. «Siamo democratici – chiariva Rossi – perché siamo pessimisti nei riguardi dei governanti». E per Rossi, oltre agli espedienti del costituzionalismo liberale, il freno più importante, la martinicca diciamo così del potere capriccioso veniva tirata proprio dal regime della proprietà privata (alla quale Salvemini – parole sue – non attribuiva «nessuna importanza») perché chi non vive del proprio è fatalmente soggetto agli umori dello Stato che, padrone di tutto, anche del pane, lo ricatterà così: non obbedisci? Bene: non mangi. O l’ubbidienza e il pane. O la disobbedienza e la fame. Ecco perché quando ancora molti, troppi, si abbandonavano al collettivismo quasi col trasporto di una primavera interiore, proprio lì Ernesto Rossi vedeva saldate le catene che legano gli uomini ai ceppi della servitù. Potremmo continuare con il rimpallo dei contrasti, ma ora l’interrogativo è: chi aveva ragione? L’emulo di Stuart Mill? O il continuatore di Pareto? Ecco: questa è precisamente una di quelle domande scivolose che sfuggono alla presa di risposte troppo perentorie. Sicchè l’unica soluzione è quella saggia, ma un po’ evasiva, di chi dice: “dipende”. Dipende dai numeri; e dipende dalla circostanze. Normalmente e ragionando sulla generalità dei casi, c’è poco da fare: il piatto pende dalla parte di Rossi. Poi, però, o perché circoscritto al piccolo drappello o perché si danno eventi straordinari, sorge sempre qualcuno che tacita il pessimismo radicale. Qualcuno, per esempio, che sfida nove anni di carcere e quattro di confino per non piegare alle soperchierie del fascismo; qualcuno che inchioda gli imbroglioni con le sue denunzie documentate fino alla minuzia; qualcuno il cui carattere pare sforbiciato da una vita di Plutarco; qualcuno… sorge Ernesto Rossi che è la smentita parlante del suo stesso pessimismo (almeno quando il pessimismo vuole dilagare nell’universale e ribadirsi nel permanente).
Gaetano Pecora
Il Sole 24 Ore – 5 febbraio 2017